Dove inizia la curiosità e la voglia di conoscenza? Senz’altro intorno a quanto ci circonda, al luogo dove abitualmente si vive o si lavora e poi si estende in senso più lato ai luoghi più prossimi e, allargando i confini stretti del quotidiano vivere, alle persone e ai fatti che in quell’area si sono succeduti. Ve ne darò un esempio partendo da una mia curiosità. Vi farò conoscere un angolo di Napoli molto noto ma allo stesso tempo, forse, sconosciuto e condividerò con voi una scoperta casuale che potrebbe riguardarmi, chissà, ma su cui forse in seguito approfondirò.
Nel luogo di cui parlerò vivo per lavoro fin dal 1970 e inoltre nei suoi immediati dintorni si è svolta la mia gioventù.
Per comprendere appieno quanto vi racconterò vi ricorderò che la costa di Napoli nei secoli si è molto modificata ad opera del tempo e dei suoi normali accadimenti e ad opera dell’uomo che, per la sua voglia di espandersi giustificata o meno, ha sottratto dei pezzi di mare con colmate di cemento per edificare nuove strade e nuovi palazzi.
Dapprima il mare lambiva la costa del Chiatamone che si presentava con le sue grotte e cavità scavate nel blocco tufaceo di Monte Echia o Pizzofalcone, detto così perché si mostrava a chi veniva dal mare come un grosso becco di falco adagiato sull’acqua. Alla base di queste rocce vi erano spiaggette o strisce di rena chiara utilizzate come approdo dalle comunità di pescatori che vi avevano eletto residenza. Ai primi tempi della cristianità napoletana su una di quelle spiagge più prossima all’isolotto di Megaride, oggi collegato alla terra ferma e sul quale troneggia il maestoso Castel dell’Ovo, c’era un tempio dove si veneravano il dio Mitra e la dea Serapide. Quel tempio fu uno tra i tanti riconsacrato al nuovo culto, secondo una “politica” cristiana che preferiva trasformare i vecchi templi anziché abbatterli in modo da non interferire nelle consuetudini di fede del popolo, con la costruzione di una edicola dedicata alla Vergine Maria. In seguito con il passare degli anni divenne la chiesa di Santa Maria a Cappella, detta dopo Vecchia in quanto, poco distante, nel 1635 fu edificata la nuova chiesa dedicata alla Vergine che prese il nome di Santa Maria a Cappella nuova.
A metà del XVIII secolo la chiesa di Santa Maria a Cappella nuova insisteva su uno slargo dove si affacciavano due palazzi imponenti, palazzo Calabritto e Palazzo Partanna, formando con loro una pianta quasi triangolare e fu chiamato all’epoca Largo di Santa Maria a Cappella. Oggi quello slargo si chiama Piazza dei Martiri.
Nella prima foto di fine ottocento (non mia ovviamente) di piazza dei Martiri si vede una struttura religiosa nella via al di là del giardino antistante il palazzo Nunziante che, da notizie storiche accertate, si apprende fu edificato nel 1812 sul suolo dove insisteva la chiesa di Santa Maria a Cappella nuova, demolita in seguito ad un lungo periodo di abbandono. Della vecchia chiesa non vi sono notizie certe sulla data di costruzione ma è stato ipotizzato risalente con ogni probabilità a prima dell’anno Mille.
Alla vecchia chiesa si aggiunse, tra il X e l’XI secolo, il monastero dei SS.Anastasio e Basilio dove prima i monaci “basiliani” vi si trasferirono dalle grotte della vicinissima isola di Megaride per far posto in seguito ai “benedettini” e quindi agli “olivetani” e agli “scopetini”. Tale monastero diventò abazia nel ‘400 e vantò, tra i suoi celebri abati anche quel cardinale Marcello Cervini che divenne poi nel 1555 papa Marcello II.
L’espansione massima del complesso di Santa Maria a Cappella vecchia avvenne sotto la reggenza dei frati olivetani che lo ristrutturarono grazie alla cura del nobiluomo Fabrizio De Gennaro trasformandone la struttura tardo gotica in una struttura in puro stile rinascimentale. I lavori terminarono nel 1506 e a tale data risale infatti il portale marmoreo che ancora oggi è presente nall’attuale vico Santa Maria a Cappella vecchia. Varcando questo portale del ‘500 si arriva in quello che un tempo sarà stato il cortile della vecchia abazia. Sulla sinistra, protetto da una cancellata, su una piccola gradinata in piperno, vi è l’ingresso del monastero, ora una moderna palestra con centro estetico al cui interno si possono vedere ancora segni evidenti dell’antica struttura. Sempre nel cortile, sul lato esattamente opposto a questo ingresso, possiamo scorgere, restaurata, la porta di servizio con la piccola torretta campanaria della chiesa che ha l’ingresso principale in via Domenico Morelli ed oggi indicata come cappella privata di palazzo Nunziante. Mi viene facile pensare che questa cappella forse è quanto è stato risparmiato dalla demolizione nel 1812 della chiesa di Santa Maria a Cappella nuova proprio per fare posto alla costruzione di palazzo Nunziante.
Addentrandoci oltre il cortile si passa sotto l’androne di un altro palazzo storico e poco conosciuto, il palazzo Sessa. Per giustificare la presenza di questo edificio è necessario approfondire la storia del vecchio complesso religioso. Verso la metà del XVIII secolo la struttura conventuale subì un violento incendio e necessitò di notevoli interventi di ristrutturazione alle cui spese i frati, autorizzati dalla Curia, fecero fronte concedendo in enfiteusi una parte del convento e il giardino superiore al marchese Giuseppe Sessa. Nel 1788, con la soppressione degli Ordini religiosi e la successiva uscita dei frati, il marchese acquisì la legittima proprietà sulle parti possedute in enfiteusi e fece erigere il palazzo che all’epoca, nella sua parte occidentale, vantava una vista eccezionale sul golfo che spaziava da Capri alla collina di Posillipo. Oggi le condizioni esterne e generali del palazzo non sono eccezionali e in due suoi piani sono ospitati sia la Sinagoga della Comunità israelita di Napoli che il prestigioso “Goethe Institut”.
La storia vissuta da questo palazzo ci riporta a personaggi illustri che hanno incrociato ed in qualche modo partecipato alla ricca storia di Napoli. Iniziamo subito partendo dal 1787 quando questo palazzo ospitava l’ambasciata inglese e ne saliva le scale nientemeno che Volfango Goethe in compagnia del suo amico pittore Wilhelm Tischbein, direttore allora dell’Accademia delle belle arti. Entrambi rendevano spesso visita all’ambasciatore inglese dell’epoca, Sir William Hamilton, attratti dalla cospicua e pregiata collezione di reperti archeologici del lord inglese, parzialmente accumulata con l’acquisto del ricco museo del conte di Pianura Francesco Grassi.
Altro personaggio di rilievo che frequentò quei saloni fu l’ammiraglio Horatio Nelson, dapprima per motivi diplomatici ma in seguito ammaliato e coinvolto in una intensa relazione sentimentale con la nuova moglie dell’ambasciatore, la fatalissima Emma Lyons. Una donna tanto bella che anche il Goethe ne rimase affascinato e nel suo famoso “Viaggio in Italia” la descrive in una delle sue frequenti esternazioni artistiche che regalava ai suoi ospiti, ed alle quali aveva assistito, atteggiando personaggi mitici del mondo classico: “In piedi, a ginocchi, seduta, sdraiata, seria, triste, maliziosa, sfrenata, contrita, provocante, minacciosa, angosciata…, una posa segue l’altra e deriva dall’altra. Per ogni espressione ha l’arte di scegliere le pieghe dello scialle, di cambiarle e di far cento diverse acconciature del capo con gli stessi nastri. Il vecchio cavaliere le tiene la candela, ufficio al quale s’è dedicato con tutta l’anima”. Nel mentre voi immaginate la scena io vado avanti con il racconto.
Oltre l’androne di palazzo Sessa, superando un ulteriore porticato, ci si addentra verso le pareti tufacee di Pizzofalcone. Passando innanzi a cancelli di moderna fattura si intravede il corpo di fabbrica ristrutturato di un altro palazzo che a naso dovrebbe trovarsi a ridosso dell’ingresso dell’ex abazia incontrata nel primo cortile. E infatti ritornando indietro verso il cortile, proprio a fianco dell’ingresso prima citato una targa cita “Palazzo Mancini di Castellana”.
Questa è la sorpresa indicata all’inizio del racconto, il mio cognome riportato a pochi passi da dove da oltre quarant’anni trascorro le mie giornate.
E la storia è questa. Alla fine dell’800, quando ormai il convento era in cattive condizioni strutturali, la parte più interna e precisamente quella intorno al chiostro dove vi erano le celle dei frati fu acquistata in gran parte dai Mancini di Castellana che ne fecero case d’affitto, e date le condizioni, furono destinate ad un ceto povero. Nel 1997 gli attuali proprietari hanno fortemente voluto una riqualificazione dello stabile e, autorizzando lavori di restauro su un complesso progetto, hanno riportato l’aspetto di parte del fabbricato il più possibile prossimo a quello originale.