A Napoli, a ridosso della sua piazza più nota, quella del Plebiscito, dove si affaccia tra l’altro il maestoso Palazzo reale e che per questo motivo i napoletani del popolino la indicano affettuosamente come “mmiézzo palazzo”, esiste un mondo di vie e viuzze che si inerpicano sulla piccola altura di Monte Echia o Pizzofalcone, proprio dove ebbe origine l’antica Parthenope. Si inizia con le Rampe della Paggeria per raggiungere piazzetta Salazar e continuare per via della Solitaria, attraversando poi la via dell’Egiziaca a Pizzofalcone e continuare con il Supportico d’Astuti per raggiungere la via Monte di Dio. Ebbene da ragazzo era questo il mio habitat vivendo proprio in via Supportico d’Astuti.
Negli anni sessanta, avevo più o meno 14 anni, frequentavo il Circolo del remo e della vela “Italia” come canottiere jr. grazie alle leve gratuite promosse dalle scuole. Una vitaccia se si pensa agli orari e alla fatica, ma a me piaceva il canottaggio, mi permetteva di stare a contatto con il mare da sempre l’elemento che mi affascinava e mi attraeva. Con ogni probabilità non sarei riuscito, e oggi non riuscirei, a vivere in un luogo senza il mare.
Come dicevo frequentavo il Circolo “Italia” e lo frequentai fino all’età della maturità, alla soglia del passaggio da canottiere jr. a sr., quando di fatto avrei dovuto effettuare una scelta: per continuare a frequentarlo senza dover pagare una tassa di iscrizione sarei dovuto passare al settore agonistico e per quanto mi piacesse quello sport di certo non poteva rappresentare il mio futuro. Fu così che la prima mattina da mancato canottiere feci le stesse cose dei giorni precedenti. Come ogni mattina a quei tempi scesi di casa che era ancora buio. Chiusi alle mie spalle il portoncino del palazzo e sotto la debole luce dei lampioni stradali, soffocata e resa velata dall’umidità dell’alba, mi avviai per la solita strada. Percorsi il Supportico e poi la Solitaria, tutta, fino in fondo dove poi svoltai per il Pallonetto di Santa Lucia.
A quell’ora molti dei bassi e delle botteghe che superavo erano già in attività: la baccaleria era illuminata e don Pasquale con il suo grembiule di incerata e i suoi zoccolacci di legno già preparava le vasche per immergervi lo stoccafisso o i grandi filetti di mussillo o di baccalà che poi avrebbe venduto a tranci o a “scelle”; don Ferdinando, invece, era appena arrivato con la sua Fiat 500 Belvedere e stava tirando su la saracinesca della sua piccola bottega di calzolaio dove riparava le scarpe di tutto il quartiere o fabbricava, su misura, quelle per piedi un po’ difficili e nei momenti morti, grazie al suo veicolo, faceva trasporti ed accompagnamenti su commissione. La nostra famiglia, ad esempio, lo prenotava ad agosto per trasferire le masserizie necessarie per la villeggiatura. Un viaggio ogni anno da Napoli a Sorrento ed alla fine di agosto ovviamente il ritorno. Ancora un po’ più giù e l’odore del pane caldo appena sfornato usciva dalla bottega di Nunziatina, la panettiera: lei, un po’ grassoccia con la bustina bianca in testa sopra i capelli mori sempre in ordine, sistemava i primi pezzi di pane appena sfornato badando a che quelli piccoli, come sfilatini “marsigliesi” o palatelle bianche o panini all’olio, andassero sulle mensole di vetro nella teca sul banco mentre, alle sue spalle, sui ripiani di marmo i pezzi più grossi come palatoni o ciambelle di pane bianco o nero; don Vincenzo, il marito, ancora un po’ imbrattato di farina, faceva la spola dall’interno, dove era sistemato il forno a legna, al banco con la spasella di legno con cui trasportava il pane appena sfornato. Il profumo intenso e avvolgente mi accompagnava per un lungo tratto. Anche donn’Antonio, il fruttivendolo, era in attività e la sua bottega già illuminata. Insieme al figlio Ciro scaricava il motociclo appena giunto dal mercato. Cassette e ceste di frutta e verdura, ancora umide di rugiada, venivano portate all’interno o poste sui banchi obliqui per essere esposte e vendute. A volte mi capitava di trovare donn’Antonio seduto e chino sulle cassette di mele e prenderle una ad una, esaminarle per scegliere le più belle, quindi asciugarle e lustrarle e delicatamente riporle in una cesta di vimini: quelle le vendeva come “ ‘e ‘mmele ‘e Biancaneve”. Lungo la via del Pallonetto molti bassi mostravano l’interno illuminato e qualche ombra si intravedeva attraverso i vetri rigorosamente protetti da tendine, qualche voce trapelava all’esterno come anche il pianto di bambini. In genere solo il basso di Carmela ‘a capera era aperto e fuori già era sistemata la sedia ed il tavolino con lo specchio i pettini e le spazzole: tra poco sarebbe cominciato il suo lavoro, tutte le donne del quartiere amavano farsi pettinare da Carmela, ma non per la sua bravura bensì per quello che poi il termine “capera” ha come significato a Napoli e che bonariamente traduco in pettegola. Carmela era spesso chiamata per i suoi servigi in molte case, anche di famiglie della medio-alta borghesia, e quindi era come se fosse una inviata speciale in un mondo precluso al popolino e pertanto, reale o romanzata, la vita di quelle dimore veniva sviscerata ai suoi clienti del basso e sempre con un alone di mistero o segreto svelato. Mia madre mi diceva che Carmela era chiamata anche in caso di spidocchiamento e questa cosa, solo al pensiero, mi procurava una forma improvvisa di prurito alla testa. Suo marito Gennaro, invece, era barbiere a domicilio, un Figaro dei quartieri, e all’occorrenza praticava anche salassi applicando sanguisughe a chi soffriva di pressione alta. Nella mia adolescenza ricordo di avere assistito una volta al salasso di mio nonno quando avevo poco più di sei anni rimanendone sconvolto. La cosa che accompagnava il mio attraversamento del Pallonetto era il costante profumo del caffè appena fatto. Questo profumo scompariva quando infine, dopo l’ultimo tratto di scale, spuntavo in via Santa Lucia dove il profumo da caldo e aromatico del caffè lasciava il posto a quello salato e fresco del mare e che a mano a mano che mi avvicinavo a via Partenope diventava sempre più intenso e dove si accompagnava alla sua voce dolce e possente allo stesso tempo. Attraversai la strada deserta e mi ritrovai sul marciapiede che lo costeggia.
Sentivo le voci dei circoli nautici del Borgo. Allungai il passo e proseguii verso Piazza Vittoria. Quella mattina il mare era buono per la voga, calmo e scalfito solo da una leggera brezza. Si vedevano i primi equipaggi di iole che si avviavano in mare oltre Castel dell’Ovo per la sessione di allenamento in acqua. Alla luce dell’alba apparivano sagome veloci e scure che scivolavano sul mare al ritmo di pagaiate sincronizzate che sollevavano pochissimi spruzzi d’acqua, quasi carezze delicate. La brezza trasportava chiaramente la voce dei timonieri che scandivano i tempi dei colpi in acqua. Era uno spettacolo che in genere avevo vissuto in mare da protagonista, ma non quella mattina che vivevo da spettatore. Le luci stradali si spensero ed il chiarore all’orizzonte sembrò più evidente. Sulla linea dell’orizzonte il Vesuvio, il monte Somma e tutta la costiera. Mi fermai e sedetti sul parapetto della strada. Non potevo perdermi il sorgere del sole proprio lì da dietro il Vesuvio. Che spettacolo. Per raccontarlo lo si dovrebbe dipingere e quella mattina lo dipinsi nel mio cuore, in maniera indelebile. Per sempre avrei portato nei miei ricordi quei colori, per sempre. Dovunque fossi andato o dovunque fossi stato.