E’ imprescindibile dal racconto dover spiegare qualcosa della mia famiglia. Famiglia borghese napoletana con non approfondite e non documentate origini blasonate. Si viveva in un appartamento, in fitto da tempo immemorabile, nella zona di Napoli a ridosso di Piazza del Plebiscito, dal popolino affettuosamente definita “ ‘mmieze palazzo” cioè “davanti al Palazzo” intendendo per Palazzo il Palazzo Reale. Tale zona è quella che comprende il Monte di Dio, Pizzofalcone, il Monte Echia. La mia famiglia abitava per l’appunto in una strada dal nome stranamente medievale Supportico d’Astuti, una strada non molto larga che mette in comunicazione la via Monte di Dio e la via Egiziaca a Pizzofalcone ed il cui ingresso, proprio su questa ultima via, avviene tramite un ampio portale ad arco, un supportico appunto, ricavato sul fronte del fabbricato. Famiglia di stile patriarcale con nonno, nonna, zia ed il nostro nucleo padre, madre e due figli. Nella stessa zona, a poca distanza, in vico della Solitaria, viveva anche una sorella di mio padre, sposata e con due figlie. Facile da intuire che spesso ci si riuniva e si formava una discreta folla. Queste erano le famiglie di quei tempi e proprio per dare una data a quanto sto per narrare diciamo che siamo all’alba degli anni ’50 ed io avevo sei anni più o meno.
In casa, ricordo, in mia presenza si parlava solo in italiano. Solo la nonna, ma non sempre, si concedeva qualche espressione colorita dialettale. A quel tempo avevo cominciato a frequentare la scuola pubblica e precisamente la II elementare, avendo preparato privatamente la I classe e conseguito con esame settembrino idoneità alla II presso la scuola pubblica. Credo che tutto questo fosse avvenuto per non farmi iniziare le scuole con un anno di ritardo essendo io nato nel mese di luglio del ’46. Oggi si potrebbe dire che ho fatto la primina.
Frequentando appunto la scuola pubblica cominciai ad avere qualche problema di socializzazione. Ero timido, parlavo esclusivamente in italiano e solo quando ero interrogato, ossequioso con il maestro, educato forse anche troppo e pertanto non riuscivo ad inserirmi nelle loro complicità. A questo si aggiungeva il fatto che, poiché il maestro apprezzava e lodava pubblicamente la mia diligenza, ero additato come secchione e puntualmente evitato. A volte durante la ricreazione cercavo di avvicinarmi ai gruppetti vincendo la mia naturale timidezza ma non riuscivo a capire molte parole che per me restavano suoni, anche se gradevoli, ma pur sempre suoni in mezzo a parole. Tornavo a casa e lo dicevo a mia madre che puntualmente recitava: “Tu non hai nulla a che fare con quei ragazzacci. A scuola si va per studiare” e la chiudeva là. Ed io rimanevo sempre con i miei dubbi e le mie domande: “Perché erano ragazzacci i miei compagni?” , “Perché non riuscivo a comprendere tutto quello che dicevano tra di loro? Quasi usassero apposta un modo segreto per parlare e per non farmi capire”. Continuavo a sentirmi un escluso, un diverso.
Un pomeriggio ero a casa a studiare, farei meglio a dire a riempire una paginetta del quaderno con paroline contenenti il dittongo “gn” e mentre scrivevo ripetevo: “ gnomo, ogni, cigno, cagna “, lo ricordo come fosse ora, ed ero seduto al mio banchetto regalatomi al mio compleanno da una zia, sorella di mia madre. Il banchetto era formato da una miniatura di banco scolastico di quei tempi, rigorosamente grigio con il ripiano nero ribaltabile con annesso un piccolo sgabello con schienale, adeguato nelle misure. Squillò il campanello della porta di casa e qualcuno andò ad aprire. Era la commessa della lavanderia venuta a consegnare dei capi di abbigliamento; non era sola, aveva portato con sé la figlioletta che non aveva potuto lasciare a bottega. La bimba, una ragazzina mora riccia e un po’ rotondetta, mi vide e mentre la madre parlava con i miei venne verso di me. Ricordo che mi sentii, come sempre, imbarazzato e cercavo di ignorarla e di concentrarmi su quello che scrivevo. Con la coda dell’occhio invece osservavo la bimba ferma al mio fianco. D’improvviso la udii emettere un suono da prima piacevole, poi stridulo rapido e insistente che alle mie orecchie arrivava più o meno così: “maraiaseggia”, una pausa e poi di nuovo “maraiaseggia”. Io la guardavo sempre più imbarazzato e muto e forse questo mio atteggiamento indispettiva la bimba che continuava a ripetere lo stesso suono in maniera più stridula e cattiva. Non ce la feci più, abbandonai il mio posto di studio e corsi da mia madre piangendo e indicando la bimba. Non comprendendo quanto io cercavo di dire, mia madre e la commessa della lavanderia con me al seguito si precipitarono in camera da pranzo dove, nel banchetto da me occupato prima, c’era la bimba che al nostro arrivare si girò di scatto verso di noi sbarrando gli occhi. Sua madre la investì con un suono che terminava in “là”, più o meno “susetallà” e la prese bruscamente per un braccio tirandola fuori dal banco. Rimasi per un po’ interdetto. Anche sua madre si era espressa con un suono. Quello che seguì mi dispiacque. La commessa riprese a parlare, intendo in maniera a me comprensibile, scusandosi con mia madre e contemporaneamente ammonendo la bimba che la guardava con due occhioni gonfi di pianto e sottovoce mugugnava “vulevepruvà asiggiulella” e quest’ultimo suono detto lentamente e dolcemente mi fece capire che parlava dello sgabellino dove ero seduto.
Quando furono andati via chiesi a mia madre: “Ma come parlava quella bimba?” E mia madre: “In dialetto”. Ed io : “Che cos’è il dialetto?” E Lei: “E’ il modo di parlare delle persone….” E qui il mio ricordo mi porta a scrivere “maleducate”, ma oggi lo correggo per quello che allora voleva intendere mia madre “….che non hanno studiato”.
Questo creò in me altri dubbi: “Giusto, i miei compagni devono andare a scuola per imparare a parlare, ma io che so parlare bene che devo fare?”
Fu poi mio padre che mi fece capire la differenza esaltando la lingua italiana in quanto lingua madre e unica per tutti, ma dicendo anche che i dialetti di ogni popolo rappresentano il legame indissolubile con la terra di origine e le sue tradizioni e che vanno altresì conosciuti. E cominciò a parlare del dialetto napoletano, la sua storia, i suoi poeti. A ogni mia domanda c’era una risposta. Anche quando chiesi il significato di “ ‘A siggiulella”, la piccola sedia, lo sgabellino.
Nacque allora la mia sete di conoscere e mio padre fu il mio grande maestro. Poi divenne passione.
E’ superfluo dire che da allora cambiò il mio modo di socializzare e di rapportarmi agli altri. Anche se mi sentivo diverso ma in senso positivo.